SEZIONE ISPANOAMERICANA
SEZIONE DI CULTURA E CIVILTA' CINESE
LA GIADA NELLA CULTURA CINESE
Un antico proverbio cinese recita:
“L’oro ha un valore, la giada è inestimabile.”
Durante tutto l’arco della storia cinese, la giada ha sempre fatto parte della cultura dell’uomo, mantenendo il suo ruolo sacrale e di protezione. Prima dell’età del bronzo, questa pietra dalle connotazioni straordinarie, come durezza, sonorità e resistenza, era il materiale dominante in Cina, usato sia come ornamento prezioso, per rappresentare animali fantastici come draghi e fenici, sia nella realizzazione di oggetti rituali.
Il
pittogramma originale di giada era
王 , cioè composto da tre linee orizzontali e un tratto verticale. Più tardi si aggiunse il punto a goccia
玉 per formare la parola giada. Il carattere senza punto ha modificato la sua pronuncia acquisendo in cinese un significato altrettanto prezioso: re 王 .
In epoca Zhou fu poi introdotto in Cina il concetto di umanesimo nel sistema di credenze morali, e così gli intellettuali del tempo paragonarono le virtù degli uomini proprio alla giada. Fu infatti Confucio che anticamente affermò che la giada possedeva undici virtù tra cui la benevolenza, la fedeltà, l’educazione e la sincerità in quanto essa fosse lucida, non irritante per la pelle, facente parte dei rituali di costume e fosse opaca, quasi trasparente. Da qui successivamente nacque il detto “il cavaliere della morale è come la giada”.
La giada però divenne famosa soprattutto per la sua accezione rituale.
Durante la dinastia Han si credeva che l’anima degli uomini fosse divisa in due:
hun,
saliva in cielo mentre
po era l’anima vegetativa, destinata a restare tra gli agi della tomba, ricca di doni. Questo tipo di credenza stimolò l’interesse nella pratica della conservazione del corpo attraverso l’uso di
sudari di giada
con cui coprire totalmente il defunto. Ovviamente, soltanto le persone di alto rango potevano permettersi una pratica di questo calibro. La pratica dei sudari venne col tempo abolita in quanto troppo dispendiosa. Nonostante ciò, la giada continuò ad essere utilizzata come oggetto rituale di protezione dalle energie nefaste, nonché come ornamento prezioso.
Ad oggi, in Cina la giada continua ad avere una notevole importanza, che oltre ad essere una pietra bellissima, si crede sia in grado di proteggere dalle disgrazie e di portare fortuna.
Angela Papa
IL CULTO DEGLI ANTENATI
Nell’antica Cina la credenza di un aldilà e le usanze rituali annesse ad essa hanno le proprie radici già nel Neolitico. Sin dall’alba dei tempi in Cina infatti la devozione verso i propri avi ha sempre avuto un ruolo centrale nella sfera culturale. La memoria del passato continua a vivere nella tradizione cinese nel presente attraverso il culto.
Per quanto riguarda la connessione tra vivi e defunti vi sono testimonianze esplicite sulle famose
ossa oracolari di epoca Shang. Queste sono arrivate a noi testimoniando come attraverso l’arte divinatoria gli uomini interpellavano gli spiriti degli avi per una predizione o per allontanare energie negative.
Secondo la tradizione, la commemorazione degli avi trova il suo posto nella
festa di primavera, dove le famiglie nel festeggiare il Capodanno cinese espongono i ritratti dei propri antenati. In epoca Tang fu però stabilita una vera e propria giornata commemorativa dedicata esclusivamente a questo culto. Nell’anno 732 l’Imperatore Xuanzong istituì così la
Qingmingjie, ovvero la festa dei morti, che cade il quindicesimo giorno dopo l’equinozio di primavera. Da quel momento, ogni anno, ogni famiglia cinese di qualsiasi estrazione sociale si riunisce per commemorare i cari defunti. In questo giorno di sentimenti contrastanti tra nostalgia e felicità, come vuole la tradizione, si è soliti andare al cimitero al mattino presto per dedicarsi alla cura delle tombe, pulirle, adornarle, pregare e fare offerte agli antenati. Tra le usanze più famose vi è poi quella di far
volare gli aquiloni, mentre altre tradizioni, come indossare rami di salice e giocare con le altalene, sono ormai andate perdute.
Per i cinesi, dunque, onorare i propri antenati è tra i doveri filiali più importanti.
Si può dire che in Cina la venerazione degli avi sia più importante della devozione verso qualsiasi altra divinità? Difficile dirlo. Ciò che è certo è che nella tradizione cinese gli antenati, così come tutta la discendenza, hanno un’importanza centrale in ambito spirituale. D’altronde secondo un antico detto cinese: dimenticare i propri antenati significa essere un ruscello senza sorgente, dimenticare i propri avi significa essere un albero senza radici.
Angela Papa
LA "CHIESA DEI CINESI" A NAPOLI
你知道吗? Lo sapevi?
Nella zona compresa tra Capodimonte e Rione Sanità è sita la chiesa della Sacra Famiglia dei cinesi, una struttura storico-religiosa, fondata dal missionario ebolitano Matteo Ripa nel 1732.
Il luogo, che testimonia il legame antico tra Napoli e l’Impero celeste, venne utilizzato come istituto d'educazione missionaria per i giovani cinesi che il missionario aveva riportato con sé da Pechino.
La struttura, nel corso degli anni, ha subito varie trasformazioni ma, ancora oggi, regala un’importante testimonianza artistica. Tra gli elementi di spicco vi è sicuramente l'androne caratterizzato da una grande volta affrescata del XVIII secolo, il mezzo busto di Matteo Ripa scolpito da Leonardo Di Candia e la tela di Antonio Sarnelli raffigurante la Sacra Famiglia con Gesù e due giovani cinesi.
Si tratta di Giovanni In e Lucio Wu che nel 1724 arrivarono a Napoli con altri giovani cinesi al seguito di Ripa e furono i primi allievi del collegio.
Vincenzo Afflitto
Hua Mulan 花木兰
Mulan, Il famosissimo film d’animazione Disney, è ispirato alla Leggenda cinese di
Hua Mulan è una leggendaria eroina cinese che si arruolò in un esercito di soli uomini. La sua storia è raccontata per la prima volta in un poema cinese scritto da Liang Tao, scrittore e filosofo, nel VI secolo a.C. Il testo completo del poema è andato perduto, ma se ne conservano alcuni frammenti, in particolare una poesia nota
come “La ballata di Mulan” 木兰辞 (Mùlán cí).
Non esistono prove che la ragazza descritta nel poema sia realmente esistita, ma la sua storia, narrata solo in opere letterarie, è comunque studiata nelle scuole cinesi di oggi, e non solo. Il cognome della coraggiosa guerriera è Huà花, cioè fiore, e il nome Mùlán木兰, ovvero magnolia.
Il fiore di magnolia è uno dei simboli della Cina fin dai tempi più antichi.
Di seguito due passaggi della ballata di Mulan:
1. 唧 唧 复 唧 唧 2. 木 兰 当 户 织
1. Un sospiro dopo l’altro, 2. Mulan sta tessendo davanti all’uscio.
3. 不 闻 机 杼 声 4. 惟 闻 女 叹 息
3. Non si sente il rumore della spoletta, 4. solamente i sospiri della ragazza
5. 问 女 何 所 思 6. 问 女 何 所 忆
5. Le chiedi: «Cosa pensi?». 6. Le chiedi: «Di cosa hai nostalgia?».
7. 女 亦 无 所 思 8. 女 亦 无 所 忆
7. «Non penso a niente, 8. non ho nostalgia di nulla
9. 昨 夜 见 军 帖 10. 可 汗 大 点 兵
9. La notte scorsa ho visto le insegne, 10. il Khan sta arruolando una grande forza,
11. 军 书 十 二 卷 12. 卷 卷 有 爷 名
11. la lista dei soldati occupa una dozzina di rotoli, 12. e in ognuno è il nome di mio padre.
13. 阿 爷 无 大 儿 14. 木 兰 无 长 兄
13. Non c’è un figlio adulto per lui, 14. Mulan non ha un fratello più grande
15. 愿 为 市 鞍 马 16. 从 此 替 爷 征
15. Andrò a comprare un cavallo e una sella 16. per combattere al posto di mio padre.»
53. ...当 窗 理 云 鬓 54. 对 镜 贴 花 黄
53. ...Vicino alla finestra si accomodò i capelli, 54. davanti allo specchio si adornò con un impasto di fiori gialli.
55. 出 门 看 伙 伴 56. 伙 伴 皆 惊 惶
55. Lei uscì fuori della porta e vide i suoi camerati 56. che rimasero tutti stupiti e perplessi:
57. 同 行 十 二 年 58. 不 知 木 兰 是 女 郎
57. «Dodici anni siamo stati insieme nell’esercito 58. e nessuno sapeva che Mulan fosse una ragazza.»
Vincenzo Afflitto
SEZIONE DI LINGUA E CULTURA GIAPPONESE
Abe Kōbō e La donna di sabbia
Abe Kōbō è uno degli artisti poliedrici più importanti del Giappone del ventesimo secolo: prosatore, saggista, drammaturgo, fotografo, poeta e persino sperimentatore nei campi dell’arte figurativa e della musica elettronica. Le sue opere vanno dall’‘esistenzialismo’ allo ‘sperimentalismo’ più puro.
Abe Kōbō ci presenta mondi privi di riferimenti linguistici di coesione sociale, dando vita a mondi grezzi scevri di una propria base di riferimento, che possono essere definiti ‘universali’.
Il suo intento è quello di vivisezionare la realtà guardando l’irreale, decostruendo il concetto di narrazione: come lui stesso afferma, “la sperimentazione è come una spada acuminata da puntare contro l’ostinazione delle idee fisse”.
È stato spesso chiamato “Kafka d’Oriente” o “Kafka giapponese” per la vicinanza delle tematiche delle loro opere: oppressione della comunità e morte dell’individuo, isolamento causato dell’impossibilità di comunicare e la metamorfosi.
Il film La donna di sabbia, tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1962, è stato scritto da Abe Kōbō stesso e diretto dal suo amico e collaboratore Teshigahara Hiroshi (uno dei massimi esponenti della nouvelle vague giapponese). Esce nel 1964 e vince il Premio Speciale della Giuria al 17º Festival di Cannes. L’UNESCO l’ha definito “una delle opere rappresentative dell’eredità letteraria universale”.
L’opera parla di un entomologo, di nome Niki Junpei, che va in una località remota per cercare e classificare una nuova specie di insetto. Il viaggio inizia a diventare ‘assurdo’ quando cade in una fossa sabbiosa dove vive una donna.
Si tratta senza dubbio di un capolavoro del cinema internazionale sia a livello tecnico (per esempio, nei primi piani è possibile distinguere i granelli di sabbia) che a livello tematico, poiché parla di una condizione umana ‘universale’, che prescinde dalla cultura di appartenenza, e lo fa con un’efficacia unica.
Alessandro Muciaccia
In Giappone le stagioni sono ben distinte ed il trascorrere del tempo è molto sentito dalla popolazione, ogni minimo cambiamento viene considerato in modo molto serio e viene percepito grazie alla sensibilità per la natura caratteristica dell’animo giapponese. I giapponesi dividono le stagioni in altre sotto-stagioni ed in totale distinguiamo 24 stagioni legate simbolicamente a fenomeni naturali (come la fioritura dei ciliegi). Affidarsi ai segni della natura per percepire l’avvicinarsi di un periodo ben definito è reso ancora più utile dalle immagini caratteristiche del paesaggio nipponico: l’estate torrida rappresentata dalle lucciole, l’autunno con i colori caldi dei momiji, l’inverno freddo e nevoso, la speranzosa primavera rappresentata da fiori di ciliegio, nel nostro immaginario comune simbolo per eccellenza del Giappone. Eppure c’è molto altro, la sacralità delle stagioni in Giappone, radicata fin dai tempi antichi, ha qualcosa di incredibilmente profondo.
Ancora oggi i giapponesi, mai diretti e schietti, preferiscono esprimere i propri sentimenti in modo elegante e delicato, quasi sempre attraverso uno scenario naturale. La natura, simbolo dell’animo umano, diventa la chiave per esprimere ciò che si nasconde dentro la nostra intimità. A partire dal periodo Heian (794-1185) divenne comune la pratica di associare stagioni ed elementi naturali ad emozioni e pensieri, non solo in poesia, ma in ogni forma di arte. La poesia classica giapponese, waka, di origine aristocratica, diede vita ad associazioni tra stagioni e stati d’animo, in seguito canonizzate fino a diventare un vero e proprio codice, e possiamo trovare questa incredibile sensibilità anche nelle stampe dei Kimono, nei dipinti dei paraventi, nei giardini zen e nelle composizioni floreali tipiche di un arte chiamata Ikebana.
La natura, mai rappresentata nel suo aspetto selvaggio, ma sempre simbolo di eleganza ed armonia, divenne anche metafora del ciclo della vita e della sua transitorietà. Come non pensare allora ai fiori di ciliegio? In questo difficile periodo di emergenza sanitaria desidero che tutti noi riuscissimo a considerare questa transitorietà piuttosto che negativamente, come un simbolo di speranza. Non importa quanto duro sia questo inverno, prima o poi i fiori sbocceranno ed arriverà la primavera.
Maria Morlino
A caccia di goshuin in giro per il Giappone
Un testimone speciale di un viaggio in Giappone è il goshuinchō, grazie a questo piccolo quaderno dalla copertina finemente decorata con motivi tradizionali giapponesi – o con i personaggi degli anime e manga più famosi del momento - i fogli bianchi e l’apertura a fisarmonica, ogni persona che visita il Giappone avrà con se la prova tangibile ed unica del proprio itinerario nipponico. Ma cosa si raccoglie esattamente in un goshuinchō?
Una volta arrivati in un tempio o santuario, potrete notare una fila di persone accanto al negozio di talismani –omamori- e goshuinchō, queste persone sono in fila per ricevere proprio il goshuin. Una volta giunto il proprio turno, un monco calligrafo prenderà il vostro goshuinchō per apporvi il timbro del tempio/santuario, e la calligrafia che indica il nome del tempio/santuario, la divinità del posto, il giorno, il mese e l’anno della vostra visita.
Goshuin significa “sigillo rosso” ed è una pratica risalente al periodo Edo (1603-1868), nata nei templi Buddhisti e diffusasi successivamente anche nei santuari shintoisti - jinja.
I pellegrini certificavano la loro visita facendosi apporre su un foglio di carta il timbro rosso sovrapposto ad un sutra (una trascrizione di un insegnamento del Buddha) scritto con l’inchiostro nero. Ogni tempio/santuario ha il proprio speciale goshuin e ogni monaco calligrafo il proprio stile di scrittura. Di solito per riceverlo bisogna fare un’offerta, che dovrà essere più cospicua in base all’importanza della divinità del luogo. Oggi la raccolta e la ricerca dei goshuin sono praticate anche dai turisti, che usano il goshuinchō quasi come un pokèdex dove registrare tutti i luoghi sacri visitati.
Naomi Cavaliere
Il cinema di Ozu Yasujirō
Nell’ampio scenario cinematografico internazionale il cinema giapponese ha conquistato il cuore degli spettatori con stupendi film d’animazione e avventurose pellicole con protagonisti valorosi samurai, arrivando ad influenzare con le sue storie e tematiche anche registi stranieri.
L’origine principale di questa fascinazione è il profondo interesse per le opere di genere giapponesi. C’è però un aspetto più intimo, realistico, rimasto oscuro ai più, del cinema giapponese, cioè il tema della famiglia, dei meccanismi che muovono i rapporti familiari, spesso attraverso il contesto storico giapponese caratterizzato da eventi talvolta nefasti, che è qualcosa di meno appetibile del cinema di genere, eppure meravigliosamente foriero del vero e intimo spirito del popolo giapponese, e che quindi ci permette di scoprirlo al di fuori dei filtri occidentali.
In questo
Ozu Yasujirō è stato, tra gli anni ’30 e ‘60, il regista maggiormente rappresentativo di tale filone. Attraverso una spasmodica ricerca dei rapporti genitori-figli, Ozu ha portato su schermo le dinamiche dei nuclei familiari giapponesi nonché, in maniera rivoluzionaria per il tempo, il punto di vista dei bambini che le vivono.
Quel che Ozu ottiene nei suoi film è di rappresentare i problemi, le crisi e le vicende più importanti che il Giappone vive nell’arco di circa quarant’anni, dalla crisi economica alla ripresa del dopoguerra, in particolare attraverso il tema della disgregazione della famiglia tradizionale in una mononucleare, che rompe l’armonia iniziale e mette gli individui dinanzi alla consapevolezza dell’effimera realtà in cui vivono, realizzando che il cambiamento è necessario e deve essere accettato con rassegnazione, poiché dietro ogni mutamento si nasconde una nuova vita e nuovi equilibri.
Tra i film più interessanti abbiamo Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962).
È in questa semplicità e familiarità che ritroviamo probabilmente l’essenza più intima del Giappone al cinema, senza fronzoli o artifici tecnici.
Rita Giaquinto